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Coronavirus. Cosa sappiamo del modo in cui le nostre difese si attivano e scemano dopo i primi sintomi

02 Novembre 2020 - 14:29 Juanne Pili
La risposta immunitaria al SARS-CoV2 sarebbe determinata da durata e gravità della malattia

Al netto di qualche minoranza, è abbastanza consolidata nella letteratura scientifica l’idea di una immunità di comunità anche mediante il supporto della vaccinazione di massa, magari mirata ai soggetti più a rischio di contrarre forme gravi di Covid-19. La ricerca del primo vaccino sicuro ed efficace contro la diffusione del nuovo Coronavirus è una partita importante, che si gioca attorno alla durata dell’immunità e alle dinamiche con cui si attivano gli anticorpi specifici. Abbiamo imparato a conoscere principalmente le immunoglobuline (IgM e IgG), prodotte dai linfociti B; in particolare le IgG, responsabili dell’immunità a lungo periodo. 

Quanto dura quindi questa immunità? Non lo sappiamo con certezza. Potrebbe non essere più longeva di qualche mese, come emerso in diversi presunti casi di pazienti re-infettati.
Funziona per tutti allo stesso modo? Sembra di no, abbiamo visto per esempio, che la differenza tra asintomatici e casi gravi la può fare – in buona parte – l’avere una risposta immunitaria più o meno coordinata, tra linfociti B e T; questi ultimi sono responsabili dell’immunità cellulare, che potremmo aver ereditato da precedenti infezioni.  

Un recente studio pubblicato su Nature Microbiology suggerisce che le nostre difese contro il SARS-CoV-2 tendano a diminuire nell’arco dei tre mesi successivi all’infezione. La gravità della Covid-19 sembra determinare queste tempistiche; del resto anche la durata della malattia sembra giocare un ruolo importante. Quanto emerso nella ricerca, condotta da Michael H. Malin e Katie J. Doores del Kings College di Londra, potrebbe avere implicazioni importanti nella realizzazione di un vaccino, e nello sviluppo di terapie farmacologiche mirate

Come è stato svolto lo studio

Notiamo che i ricercatori non si concentrano principalmente nello stabilire tempistiche definite riguardo alla durata dell’immunità, mentre cercano maggiormente di capire le dinamiche mediante le quali questa entra in gioco. Da un gruppo di 65 volontari positivi al SARS-CoV2 sono stati ricavati campioni di siero, raccolti fino a 94 giorni dalla prima insorgenza dei sintomi. La presenza del virus è stata monitorata in tempo reale attraverso il test RT-PCR. 

  • Per maggiori approfondimenti sui test diagnostici consigliamo la lettura della nostra apposita guida, dove trovate anche il test ELISA, utilizzato per monitorare la quantità di anticorpi nel tempo.

Tradotto letteralmente sarebbe un «Test immunosorbente legato agli enzimi», noto anche con la sigla ELISA. Si basa su una piastra contenente proteine virali. La necessità di disporre di antigeni che generino una risposta efficace rende questo genere di test ancora poco affidabile. [In situazioni non controllate, diversamente da ricerche di questo tipo].

Per il test PCR volto a monitorare la presenza del SARS-CoV2, i virioni (singole particelle virali) sono stati isolati in colture di cellule Vero-E6. Si tratta di una delle linee cellulari comunemente utilizzate per isolare i Coronavirus, con buona pace di chi ancora sostiene che questo non sia mai successo.

Cosa è stato osservato

Due sono gli elementi rilevanti trovati nello studio, riguardanti la dinamica con cui la risposta anticorpale si innesca e comincia poi a scemare nel corso del tempo: il lasso di tempo trascorso dall’emergere dei primi sintomi a 94 giorni di decorso; la gravità della malattia.

«La cinetica della risposta anticorpale neutralizzante è tipica di un’infezione virale acuta – spiegano i ricercatori – con titoli anticorpali neutralizzanti in diminuzione osservati dopo un picco iniziale [inoltre] l’entità di questo picco dipende dalla gravità della malattia».

Un altro punto importante di questa ricerca pone l’accento sull’importanza di conoscere le risposte immunitarie, per un migliore utilizzo dei test basati sugli anticorpi (per esempio quelli sierologici), in modo da ottimizzarne l’efficacia, in attesa di accertamenti più sicuri attraverso l’analisi RT-PCR (il grassetto è nostro): 

«Ulteriori conoscenze sull’entità, i tempi e la longevità delle risposte anticorpali neutralizzanti dopo l’infezione da SARS-CoV-2 sono vitali per comprendere il ruolo che gli anticorpi neutralizzanti potrebbero svolgere nell’eliminazione della malattia e nella protezione dalla reinfezione – continuano gli autori – poiché è stata posta grande enfasi sui test di reattività degli anticorpi per determinare la sieroprevalenza contro SARS-CoV-2 nella comunità e stimare i tassi di infezione, è importante comprendere le risposte immunitarie dopo l’infezione per definire i parametri in cui i test anticorpali possono fornire dati significativi in l’assenza di test PCR negli studi sulla popolazione».

La differente risposta anticorpale nei casi lievi e gravi

Si tratta di una ricerca la cui importanza si evince dalla scarsità di studi sulla dinamica e longevità dell’immunità nei pazienti Covid, specialmente nei soggetti con una fase di convalescenza oltre i 30-40 giorni dai primi sintomi. Molto dipenderebbe da quanto è grave la malattia.

«Dimostriamo che l’entità della risposta anticorpale neutralizzante dipende dalla gravità della malattia – continuano i ricercatori – In alcuni individui che sviluppano titoli anticorpali neutralizzanti modesti dopo l’infezione (ID50 (diluizione del siero che inibisce l’infezione del 50%) nell’intervallo 100-300), i titoli diventano non rilevabili (ID50 <50) o si avvicinano al basale dopo ~ 50 d, evidenziando il transitorio natura della risposta anticorpale neutralizzante verso SARS-CoV-2 in alcuni individui. Al contrario, gli individui con ID50 di picco elevato per la neutralizzazione mantengono titoli anticorpali neutralizzanti nell’intervallo 1.000–3.500> 60 d POS».

Quel che lo studio non riesce a chiarire è la ragione per cui questo accada. Sembra intuitivo: casi gravi darebbero luogo a una risposta più elevata, contrariamente a quelli lievi. Forse gli stessi anticorpi potrebbero giocare un ruolo nell’innesco della tempesta di citochine, collegata all’infiammazione. Abbiamo visto che esistono evidenze riguardo a un ruolo dei linfociti T, ma non è dimostrato se siano implicate anche le immunoglobuline.

«Al contrario – spiegano gli autori – diversi studi riportano una risposta anticorpale sostenuta nei primi 3 mesi dopo l’infezione da SARS-CoV-2, ma questi studi riportano cambiamenti solo negli anticorpi leganti. Durante l’infezione vengono generate risposte di memoria che possono essere attivate per produrre rapidamente anticorpi neutralizzanti alla riesposizione a SARS-CoV-2 e prevenire infezioni e/o malattie».

I vaccini ricombinanti di Moderna e Novavax

In questa ricerca è stato visto che i «titoli anticorpali neutralizzanti» tendono a scemare a seguito di una Covid meno grave, mentre al contrario nei casi più gravi succederebbe il contrario. Così i ricercatori suggeriscono di concentrare le ricerche su vaccini che possano suscitare fin da subito una attivazione delle immunoglobuline simile a quella vista nei pazienti con gravi sintomi.

Così i candidati migliori sembrano essere i vaccini basati su RNA messaggero codificante del principale antigene del SARS-CoV2, ovvero la glicoproteina Spike (S); oppure con nanoparticelle ricombinanti che generano lo stesso risultato. Gli autori menzionano in particolare i vaccini di Moderna e Novavax.

«I primi risultati degli studi clinici di fase I hanno mostrato titoli anticorpali neutralizzanti mediani di picco di 654 e 3.906 dopo due dosi di un vaccino a RNA messaggero codificante per la glicoproteina S di SARS-CoV-2 (mRNA-1273) di Moderna e due dosi di una nanoparticella ricombinante S, [del] vaccino glicoproteico di Novavax – continuano i ricercatori – Il ruolo giocato nel controllo della malattia dalle cellule T generate attraverso l’infezione o la vaccinazione non può essere ignorato in questi studi – continuano i ricercatori – ed è necessaria un’ulteriore definizione […] della longevità della protezione indotta dal vaccino. Nel loro insieme, nonostante i titoli anticorpali neutralizzanti inferiori misurati negli ultimi tempi in alcuni individui, i titoli anticorpali neutralizzanti possono essere ancora sufficienti per fornire protezione da COVID-19 per un periodo di tempo. Tuttavia, studi di follow-up che coinvolgono test PCR sequenziali e analisi sierologiche in questi individui saranno fondamentali per comprendere la capacità degli anticorpi neutralizzanti di proteggere dalla re-infezione negli esseri umani».

Foto di copertina: Engin_Akyurt | Ricerca al tempo della Covid-19.

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